«E se aggiungessi il movimento?»
Intervista a Sono Sion
a cura di Matteo Boscarol
D.: Prima di tutto vorrei chiederle dei suoi inizi,
di come è entrato nel mondo del cinema e se da ragazzo aveva particolare
interesse per la settima arte.
R.: Da ragazzo
mi piaceva molto guardare film alla televisione, c’erano molti film europei e
americani a quel tempo, tanti capolavori, una cosa che è impensabile nella
televisione giapponese di adesso.
D.: Ad esempio?
R.: Un po' di
tutto, film di Fellini e ancora più vecchi, quelli di De Sica, per esempio;
bastava guardare la tv e si poteva già imparare molto [dai film]. Era una cosa
naturale, come adesso ci sono i programmi per bambini o come i ragazzi di oggi
guardano i cartoni animati, così noi avevamo i film. Non era niente di
eccezionale, era una cosa naturale. Ne ho guardati tantissimi, a quel tempo ero
un esperto, mi scrivevo tutti i dati tecnici dei film su un quaderno, dal nome
del montatore a quelli di tutti i membri dello staff. Mentre gli altri miei compagni
si divertivano a parlare dei protagonisti dei loro cartoni animati preferiti,
io me ne venivo fuori con Ingrid Bergman [ride] e per questo non avevo amici.
Una strana sorta di follia per il cinema, ecco che cos'era la mia. Insomma, mi
piaceva il cinema, ne ero attratto, senza per questo avere nessun particolare
proposito di diventare regista o quant'altro. Mi piaceva anche leggere manga o
libri, ad esempio le storie di Edogawa Ranpo; insomma ero un ragazzo a cui
piaceva stare da solo. Odiavo stare insieme agli altri. A diciott’anni ero un
appassionato di cinema ma suonavo anche in un gruppo…
D.: E la poesia…
R.: Sì, certo,
scrivevo poesia e il mio nome cominciò pian piano a girare, tanto che, a un
certo punto, pensavo di diventare un poeta di professione. Però, se avessi
pubblicato dei libri, la mia scrittura sarebbe diventata uniforme; con i
caratteri di stampa, le emozioni non possono trasparire come con la propria
calligrafia. Invece, volevo che il mio stato d'animo rimanesse nella scrittura,
uno stile nervoso e tremolante quando ero irritato, e uno più disteso e bello
quando ero calmo e in pace con me stesso. È per questo che decisi di cominciare
a fotografare queste poesie che scrivevo in giro per la città, erano dei veri e
propri graffiti. Facendo le foto di queste poesie/graffiti, accadeva che
qualcuno vi passasse davanti e ne fosse catturato. «E se aggiungessi il
movimento?» mi chiesi, ed ecco che allora tirai fuori una 8mm e cominciai a
girare…
D.: Poesia in movimento…
R.: Sì, e così
pensai che sarebbe stato interessante girare la videocamera verso di me e
cominciare anche a parlare [il riferimento è al film I Am Sion Sono!]. Fu intrigante e la cosa ebbe anche dei consensi,
ma non lo consideravo un primo passo per diventare regista; non è che fosse una
cosa così seria, era solo un esperimento interessante, divertente. Un
film-performance personale, fatto da una o due persone, io e qualche mio amico.

D.: Dai suoi primi esperimenti fino al suo ultimo
film Himizu, è cambiato il suo approccio al cinema, il
suo modo di lavorare?
R.: Sa, sono
cambiati i tempi, quello che facevo io venti o trent'anni fa e che non faceva
nessuno è diventato ora normale.
D.: Vorrei parlare un po' di due registi giapponesi,
Ishii Teruo e Terayama Shūji. A mio modo di vedere, ci sono dei punti in
comune, delle similitudini fra i suoi lavori e quelli di questi due autori. Lei
che cosa ne pensa?
R.: Questo è
perché ho visto molti film giapponesi di un certo periodo, cioè gli anni '60 e
'70. Il cinema giapponese per me è quello, quindi Ishii, Terayama, ma devo
aggiungere anche Fukasaku Kinji. Non il cinema che viene prima, non quello che
viene dopo, ma soprattutto questo è per me il cinema giapponese. Terayama l'ho
anche incontrato, o per meglio dire, una volta sono andato in un caffè e lui
era lì [ride], e siccome Terayama ha scritto anche sullo shoplifting, per rendergli rispetto decisi di andarmene dal locale
senza pagare… [ride]. Per quanto riguarda Ishii, una volta ho fatto anche un
piccolo cameo in un suo film (Mōjū tai issunbōshi, Blind Beast vs. Dwarf, 2001), è stata
un'esperienza interessante. Da lì a tre anni, poi, sarebbe morto.
D.: Nelle sue interviste vengono spesso fuori i nomi
di Cassavetes e Fassbinder. Quali sono per lei i punti o le parti interessanti
del loro cinema?
R.: A Cassavetes
non interessava fare dei film "belli", ma piuttosto riprendere gli
attori, le persone, che è una cosa che faccio anch'io, indipendentemente dai
soldi che ho a disposizione. Dreyer, il regista di La Passione di Giovanna d'Arco, per questo suo film aveva fatto
costruire un grande set, per poi riprendere però soltanto i volti [ride]. Fare
tutto il lavoro del set, quindi, non ha avuto alcun significato… e questo a me
piace molto. L'altro ieri ho visto il film d’esordio di Pasolini, Accattone, e mi pare che proprio in
quell’occasione Pasolini abbia consigliato di guardare La Passione di Giovanna d'Arco e sostenuto che per fare un film è
importante soprattutto saper riprendere le facce. Anch'io sono della stessa
idea, per quanto un paesaggio possa esser bello, non riuscirà mai a emozionare
[come un'espressione del viso], questa è la lezione che ho imparato da
Cassavetes.
D.: E riguardo a Fassbinder?
R.: Ci sono due
cose che mi piacciono del suo cinema: una è il suo modo di lavorare come un
pazzo, in un anno cinque o sei film, senza distinzione tra lavori maggiori o
minori. Non c'è un film più bello o più brutto dell'altro, è la totalità delle
sue opere che caratterizza Fassbinder. Poi, il secondo aspetto che mi attrae è
che i suoi lavori sono privi di humour, non c'è mai un lieto fine, sono tutte
storie terribili. A me piace molto, ad esempio, il suo penultimo film, Veronika Voss, girato in bianco e nero,
penso sia un film che mi ha influenzato parecchio, specialmente quando ho cominciato
a fare cinema.
D.: Nei registi giapponesi degli anni '60 e '70,
temi come sesso e violenza assumevano spesso un significato politico. Questi
stessi temi emergono ripetutamente anche nel suo cinema. Ci potrebbe dire la
sua opinione?
R.: Erano anni
in cui tutto era politico, pensi a Pasolini oppure al Festival di Venezia dove
la competizione venne sospesa e nessun premio fu assegnato, erano gli anni
della contestazione studentesca, era il periodo insomma. Ora, con il disastro
appena successo in Giappone [il riferimento è al terremoto e allo tsunami del
marzo 2011, con la conseguente contaminazione nucleare], si presenta un tempo
dove di nuovo il politico si riafferma, c'è una divisione netta tra chi si
interessa al sociale e al politico e chi se ne disinteressa, e solo i primi
hanno la coscienza che un nuovo tempo in cui sarà necessario "riflettere"
è oramai cominciato.
D.: Come si pone lei rispetto a tale questione?
R.: L'incidente
di Fukushima non ha solo causato radiazioni nucleari, ma ha anche evidenziato
varie altre cose, come la differenza e il rapporto fra città e campagna o il
problema delle concessioni, ad esempio. Inoltre, nell'attuale movimento antinucleare
sono concentrate varie problematiche, quella politica, quella sociale, quella
sull'educazione, insomma tutte le "cose sporche" sono venute fuori.
Per questo, nella tragedia, il disastro nucleare è stato paradossalmente quasi
"un bene".
D.: Secondo lei, cambierà anche il mondo del cinema
giapponese?
R.: Vorrei che
cambiasse, vorrei proprio…
D.: E per quanto riguarda lei, il suo cinema?
R.: Dopo Himizu sto pensando di fare un film su
Fukushima, una cosa che fino a ora era impensabile per me [ride]. A parte
Yamada Yōji, che ha cambiato la sceneggiatura del
suo film dopo l'11 marzo, nessuno degli
altri si è mosso. La televisione ha ripreso a trasmettere i suoi varietà come
se niente fosse successo; sembra che abbiano lasciato a me questo compito… Dopo
questo [il riferimento è a Himizu],
su Fukushima ne farò un altro abbastanza grande l'anno prossimo…
D.: E Lord of Chaos, il suo primo film in lingua inglese, da tempo in preparazione?
R.: Per Lord of Chaos dovrei cominciare le
riprese l'anno prossimo a marzo, ma quasi sicuramente, visti i fatti accaduti
di recente in Norvegia (il massacro del fanatico di destra nel luglio 2011), dovrò cambiare
alcune cose e alcune sfumature….
D.: Ci direbbe quali sono le cose che più odia e che
più le piacciono della società giapponese?
R.: Adesso,
appunto, il fatto che le centrali nucleari erano e sono viste come necessarie,
come qualcosa che era ed è un bene avere, mi sembra incredibile. Dimostra fino
a che punto la coscienza e la volontà dei giapponesi siano deboli.
D.: E la cosa che le piace di più?
R.: La cosa che
mi piace di più… è difficile… mah… forse una sorta di affezione che mi lega al
posto, ma è naturale, essendo io nato in Giappone. Quindi non è una cosa buona
in sé, è il rapporto con il proprio luogo natio, si ha una sorta di familiarità,
di comodità. Il Giappone non è un bel posto, almeno per me.
D.: Vorrei ora affrontare l'elemento musicale nei
suoi film. Il suo modo di usare la musica, specialmente quella classica, è
sempre riuscito. Come sceglie di solito le musiche dei suoi lavori?
R.: Nel cinema
giapponese, se devi commissionare delle musiche originali, il tempo a
disposizione per realizzarle è davvero minimo, e se il musicista non è un
genio, è quasi impossibile che ne venga fuori qualcosa di buono. Per questo, in
genere, uso delle musiche già esistenti che scelgo per le scene più importanti;
le scelgo dall'insieme dei brani che ho ascoltato personalmente fino a quel
momento. Mi piace molto usare brani abbastanza famosi di musica classica,
perché spesso altre musiche, pur belle, hanno forti sbalzi di ritmo e sarebbero
quindi difficili da inserire. Quando ero ragazzo, le colonne sonore, i brani
principali, erano davvero delle buonissime musiche ma, da un certo punto in
avanti, sono diventate niente di speciale. Non ci sono più musiche come quelle
di Delitto in pieno sole, Amarcord o La strada, ad esempio.
D.: Anche per quanto riguarda l'uso dei colori c'è
una forte attenzione da parte sua, fin da opere come Keiko desu kedo (I Am Keiko), ma anche in Koi no tsumi (Guilty
of Romance), ad esempio.
R.: Ah… I Am Keiko… pensi, è costato solo un
milione di yen [circa 10.000 euro], praticamente il costo della pellicola… Il
colore… quando faccio un film, sento talvolta che sto realizzando qualcosa di
artistico e non solo qualcosa che ha a che fare con la performance degli
attori. È stato così per Guilty of
Romance, e soprattutto per Kimyōna sākasu (Strange Circus), dove il film è per metà
recitato e per metà realizzato secondo l’ispirazione artistica. Talvolta
succede anche questo.
D.: Di solito lei che tipo di film guarda?
R.: Ne guardo
ogni giorno uno, nell’ultimo mese sto guardando molto Pasolini, anche i suoi
documentari, e sto leggendo un suo libro. Più o meno, guardo un regista ogni
mese.
D.: Guarda anche i film contemporanei?
R.: Quasi mai.
Qualche volta qualcosa al cinema, ma più che altro per vedere fino a che punto
sono arrivati sul piano tecnico, oppure per i movimenti di camera, non
certamente per le storie. Non ci sono più i film “d'arte”, oggi non sono più di
moda, ora c'è solo Hollywood. In passato, il centro del cinema era in Europa, a
Parigi. Oggi si è spostato negli Usa, a Hollywood.
D.: Ha mai usato la computer
graphics nei suoi film?
R.: Quasi mai,
diventa subito obsoleta.
D.: Quando fa un film, qual è il momento più
interessante per lei, la stesura della sceneggiatura o…
R.: Nessuno: non
mi diverto [ride]! Ora che il cinema è diventato un lavoro, un impegno, non mi
diverto più. Ma questa è una cosa buona, perché qualunque lavoratore, quando si
impegna, soffre per portare a termine il proprio compito. È una cosa positiva,
perché affronto seriamente il mio impegno e, quando è finito, mi posso
finalmente rilassare.
D.: Lei spesso scrive dei libri su cui poi basa i
suoi film e viceversa. Come si articola questo rapporto tra film e scrittura?
R.: Sono partito
dalle parole, dalla poesia, quindi le parole sono molto importanti per me.
Quando ho tempo, scrivo prima il romanzo, poi la sceneggiatura e, infine, ne
faccio un film. Ma quando non ho tempo, scrivo il romanzo dopo la realizzazione
del film, un modo per fissare le idee. Ultimamente, però, purtroppo non ho più
tempo neanche per questo. Himizu è il
primo film dove ho preso il soggetto da uno scritto altrui, però il film
su Fukushima lo scriverò io stesso. Comunque mi piace molto sperimentare,
quindi sono curioso di provare a usare anche scritti di altri autori.
D.: Ha anche realizzato dei pinku eiga. Che ricordo ha di questa esperienza?
R.: Ne ho fatti
solo due, soprattutto per guadagnarmi da vivere… ma non sono serviti neanche a
quello, perché l’intero budget l'ho usato per pagare gli attori e lo staff, e a
me non è rimasto niente. Molti altri registi hanno fatto pinku eiga, come Takita Yōjirō o Suo Masayuki, ma allora
c’era più libertà per i registi, c'erano più sbocchi. Adesso, invece, questa
libertà non c’è più, tutto è preordinato; ho sentito questa rigidità, questa
chiusura e perciò ho smesso. Ho fatto anche un AV prima del '90,
quando questo genere era in voga. Allora il cinema giapponese era bloccato, non
c’era spazio per gli indipendenti e molti registi si sono messi a fare questo
tipo di film per vivere, come Hirano Katsuyuki e Higuchi Noboru. Ho fatto anche
l'aiuto regista e il cameraman in questo settore, ma sono stato licenziato
[ride].
R.: Ho ricevuto
la proposta dall’agenzia e l'ho fatto [ride].
D.: Nei suoi film sembra emergere qua e là il tema
del rapporto tra memoria e identità. Ad esempio, in Noriko no shokutaku (Noriko's Dinner Table) questo rapporto è realizzato attraverso la
contraffazione, mentre in Chanto tsutaeru (Be Sure to Share) il
ricordo della severità del padre consente al protagonista di riconsiderare il
rapporto affettivo con lui.
R.: Non l’ho
pensato come tema esplicito. Noriko's
Dinner Table è una storia che ho sentito da una «regina sadomaso». Ci ho
pensato per anni e poi l’ho realizzata.
D.: Il tema della famiglia a noleggio, del prestito
delle persone, da Kawabata Yasunari a Yoshimoto Banana, è un tema che si
ritrova in varie opere letterarie giapponesi. Noriko’s Dinner
Table lo svolge in maniera originale,
investendo l’immagine stessa della famiglia.
R.: Non so se la
mia famiglia [quella raffigurata nel film] corrisponda alla famiglia giapponese
tipica. Però di Noriko's Dinner Table
mi piacerebbe fare dei remake in altri paesi, non so, America o Corea ad
esempio, in modo che in ogni paese si aggiungano delle caratteristiche del
luogo, come si fa di solito con le rappresentazioni teatrali.
Le domande e le risposte finiscono qui, ma in realtà
la conversazione è andata avanti ancora per molto, a proposito della passione
di Sono per Moravia, del suo odio per la tv giapponese, per il mondo dei tarento e su molto altro ancora.
Shimokitazawa, Tokyo, 5 agosto 2011
Di una sincerità disarmante in certi casi. Sarei curiosissimo di sapere quel "molto altro ancora" cosa sia... grande intervista comunque!
RispondiEliminamah si è parlato un po' di tante cose così alla leggera...è stato molto gentile...
RispondiEliminamatteoB
La ringrazio per aver condiviso questa bellissima intervista
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