Gokudō daisensō (極道大戦争, Yakuza Apocalypse). Regia: Miike Takashi. Sceneggiatura:
Yamaguchi Yoshitaka. Fotografia:
Kanda Hajime. Scenografia: Sakamoto
Akira. Montaggio: Yamasta Kenji. Musica: Endō Kōji. Interpreti e personaggi: Hayato Ichihara (Kageyama), Lili Franky (Kamiura), Narumi Riko (Kyōko), Ruhyan Yayan (Kyoken). Produzione: Django Film, Gabit, Happinet, Nikkatsu, Olm inc. Durata: 115’. Uscita nelle sale giapponesi: 20 giugno 2015.
Con Yakuza Apocalypse, Miike ritorna, per
diversi aspetti, agli anni del suo cinema proletario, quello delle produzioni
di serie B, a basso budget, quando non addirittura destinata direttamente
all’ambito dell’home-video (la cosiddetta, e a suo modo esaltante, stagione del
V-cinema). Il film si modella su alcuni
evidenti stereotipi del cinema yakuza, nella sua forma classica, quella del ninkyō eiga, così come proposta, in particolare, dai film delle Tōei degli anni
Sessanta interpretati da Takakura Ken e Tsuruta Kōji. C’è il clan yakuza che vive in armonia con la
popolazione locale; c’è l’oyabun (il
boss) buono che prende le parti dei deboli; c’è il giovane appena reclutato che
vuole emulare il suo boss; c’è il mito del tatuaggio come simbolo di
un’appartenenza; c’è la gang antagonista, crudele, spietata e occidentalizzata;
c’è il vile assassinio dell’oyabun;
e, soprattutto, c’è la lotta, senza esclusione di colpi, che ne consegue per
vendicarlo.
Miike, tuttavia, non è
un manierista e la dimensione postmoderna del suo cinema va ben di là della
logica del ricalco. Ed ecco che così il suo Yakuza
Apocalypse mescola i motivi e gli stilemi del ninkyō, a quelli del cinema di vampiri (l’oyabun, infatti, è una creatura della notte che contagerà con un
morso il suo giovane adepto, prima di morire) e addirittura col kaijū eiga (il cinema di mostri alla
Gojira/Godzilla), per non parlare di un tocco alla western all’italiana, col
suo Django di turno. Una tale contaminazione determina, poi, l’esplicito
innesto, sulla natura drammatica del racconto (che tuttavia permane), di una
dimensione chiaramente comica, giocata sul paradosso, il surreale, il grottesco
e il no-sense. Su tutte, basti citare l’apparizione di
quello che è annunciato come “il più grande terrorista del mondo” e che, quando
finalmente compare lo fa mascherato da un enorme costume da ranocchio del tutto
fatto in casa, da far apparire quello del Gabibbo come sofisticato
high-tech.
Miike si diverte a spiazzare lo spettatore attraverso l’enunciazione di fatti e immagini paradossali (si vedano, ad esempio, i brutti ceffi incatenati in un seminterrato, ripetutamente vessati e costretti a fare maglia), rivelandosi così un autore autenticamente post-moderno, i cui i film si offrono allo spettatore in una dimensione esplicitamente ludica, come dei veri e propri tranches de gâteau.
Miike si diverte a spiazzare lo spettatore attraverso l’enunciazione di fatti e immagini paradossali (si vedano, ad esempio, i brutti ceffi incatenati in un seminterrato, ripetutamente vessati e costretti a fare maglia), rivelandosi così un autore autenticamente post-moderno, i cui i film si offrono allo spettatore in una dimensione esplicitamente ludica, come dei veri e propri tranches de gâteau.
Rispetto al periodo più
‘proletario’ del cinema di Miike, Yakuza Apocalypse si presenta come un film che
esibisce il suo maggior budget attraverso un’efficace confezione estetica, che
colpisce per l’intensità formale della composizione del quadro, degli effetti
di luce e colore, dell’uso delle scenografie, e di diversi elementi grafici. Si
veda a questo proposito l’ambientazione in una ricostruita ed immaginaria
Asakusa, lo storico quartiere dei divertimenti della vecchia Tokyo, e in
particolare la nostalgica scena di combattimento che avviene davanti a un
vecchio cinema che, coi suoi manifesti di film popolari giapponesi degli anni
Sessanta, ricorda proprio quelli ancora presenti, sino a qualche anno fa, in
quello stesso quartiere. Yakuza Apocalypse non è un capolavoro, ma è uno
dei migliori risultati di Miike di questi ultimi anni, e soprattutto è un film
che testimonia di come, superata la fase di assestamento determinata dal
passaggio alle grandi produzioni e al rapporto con le major, Miike sia forse
ancora in grado di colpirci. (Dario
Tomasi)
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