mercoledì 27 luglio 2022

OKITA SHŪICHI: LA COMMEDIA ANOMALA

Un grappolo di personaggi in uno spazio ben definito, il tono lieve e ironico della commedia, i drammi che aleggiano o esplodono, ma la loro forza potenzialmente dirompente è ricondotta dall’autore a volte a un siparietto che smorza i toni, altre composta con un campo lunghissimo che relativizza.  
Okita Shūichi, dopo qualche esperienza come attore, nel 2006 esordisce alla regia con il film Ryoichi & Kiyoshi, nel quale uno studente bandito da scuola per aver ferito un compagno si ritrova a trascorrere il proprio tempo in casa con uno zio eccentrico, improvvisamente apparso dopo aver tentato il suicidio. L’opera successiva, The Chef of South Polar (2009) conferma la direzione presa dal regista: otto uomini si trovano a condividere gli spazi di una stazione in Antartide, per il tempo di una spedizione di ricerca. 


Spazio e tempo

Le dinamiche tra i personaggi dei film di Okita Shūichi, così come le atmosfere lievi che contraddistinguono le interazioni tra soggetti che sembrano a volte provenire da mondi diversi, prendono vita in luoghi ben definiti.
Lo spazio è un elemento determinante perché i meccanismi della commedia di Okita abbiano efficacia: il luogo diviene espressione del personaggio, e al tempo stesso è il campo d’azione circoscritto nel quale gli eventi tra i pochi, ben determinati soggetti, producono i loro effetti. 
In Ryoichi & Kiyoshi si tratta della casa nella quale zio e nipote coabitano; in The Chef of South Polar – che per il tema non può non far pensare al classico Il pranzo di Babette di Gabriel Axel (1987), con il quale condivide l’analoga attenzione per la preparazione di portate sontuose in un ambiente, e per commensali, inconsueti – è la stazione di osservazione in Antartide. Struttura separata dal resto del mondo da una distesa di neve nella quale gli otto uomini trascorrono il loro tempo occupandosi di trivellazioni e studio del ghiaccio, di misurazioni, della salute del gruppo o, come il narratore della storia, il giovane Nishimura, di far fronte alle esigenze alimentari. Altre volte lo spazio è quello della natura. Per The Woodsman and the Rain (2012) è il bosco, dove Katsuhiko – Katsu per gli amici – lavora e dove un bel giorno appare una troupe decisa a filmare le riprese di un film sugli zombie, sconvolgendo gli equilibri del boscaiolo e dell’intera comunità; in A Story of Yonosuke (2013) è la scuola, dove il ragazzo intesse a modo suo rapporti che dispiegheranno effetti a lungo termine, determinando un’onda lunga di ricordi; le signore di Ecotherapy Getaway Holiday (2014), in gita alla ricerca di una famosa cascata, finiscono per perdersi nella foresta, che diventa lo sfondo per la messa in scena delle diverse personalità; la vicenda di The Mohican Comes Home (2016),  sul ritorno del figlio alla casa del padre morente, si consuma su un’isola; il pittore eccentrico protagonista di Mori - The Artist’s Habitat, non si sposterà mai dal proprio giardino.
Nello spazio circoscritto prendono vita situazioni ironiche, dialoghi dal sapore surreale. Il ritmo rallenta. Come nella sequenza iniziale di The Woodsman and the Rain, nel momento in cui, mentre Katsu è intento nel suo lavoro e sta segando un albero, improvvisamente nel bosco appare un uomo che gli chiede di non fare troppo rumore perché lì vicino stanno girando un film. Il boscaiolo si ferma, lo osserva con un misto di incredulità e sospetto. L’altro ripete l’invito, ma non sembrano capirsi. Si scrutano in silenzio, entrambi seri, anche se curiosi e perplessi. 
«Posso almeno potare?» chiede infine Katsu. È il turno dell’uomo del film di non capire. Subito dopo il boscaiolo senza battere ciglio sale sul tronco, aggrappandosi con le mani e, arrivato in cima, con colpi precisi recide piccoli rami, sotto lo sguardo esterrefatto dell’altro.  
Anche la gestione del tempo viene utilizzata dal regista in maniera strumentale ai propri obiettivi. In Mori – The Artist’s Habitat da un lato la vicenda raccontata ha luogo nell’arco di un solo giorno, dall’altro si insiste sul senso quasi claustrofobico che provoca la ripetizione dei gesti usuali (un giorno che ne rappresenta mille altri), con tempi dilatati, con l’introduzione di soggettive lunghissime su un ramo, una pietra, un insetto, o “inseguendo” il personaggio nelle sue distrazioni.
In generale, con uno stile sobrio e un ritmo pacato, e pur lasciando prevalere il sorriso, si induce a una riflessione profonda sulle dinamiche che regolano il nostro vivere sociale, e sulla frenesia che spesso le caratterizza.   


Poetici alieni

Elemento portante della poetica cinematografica minimalista di Okita sono senza dubbio i suoi personaggi. Surreali, teneri, timidi, ma coraggiosi. Sempre e costantemente fuori dalle righe. 
In un incrocio affollato da persone che camminano e sembrano sapere dove stanno andando, nella Tokyo del 1987, si fa strada una figura che si muove in maniera incerta: è Yonosuke. Ha un paio di borsoni, è chiaramente appena arrivato nella capitale (è infatti originario di una piccola città nella prefettura di Nagasaki) e si muove come frastornato, guardandosi in giro in continuazione. Il suo è un movimento obliquo nell’inquadratura, frammentato, diverso da quello delle persone che lo circondano; così come, poco dopo, raggiunto il luogo dove alloggerà, si distende di traverso sul pavimento della stanza vuota, mentre la macchina da presa, dopo un leggero movimento, lo centra inquadrandolo nel vano della porta aperta.
I personaggi di Okita si presentano e si muovono come se si sentissero sempre fuori luogo: ingenui, ma anche determinati, con un approccio impacciato nei confronti del mondo che li circonda. 
L’interazione con il resto dell’umanità pare difficile, ma non impossibile e produce talvolta risultati esilaranti. Il primo piano del boscaiolo introverso truccato da zombie per partecipare a una scena nella quale, insieme ad altri morti viventi attacca un gruppo di umani nei pressi di un fiume, e poi la sequenza nella quale viene colpito dal fuoco dei fucili, cade, si spolvera i vestiti e riprende l’andatura barcollante, sono decisamente efficaci. Yakusho Koji è straordinario nel rendere le sfaccettature di un uomo un po’ asociale forse, ma di cuore, e per giunta curioso e pieno di buona volontà nel voler aiutare la troupe sgangherata e soprattutto il loro giovane regista. Quest’ultimo, più impacciato di lui, quasi bloccato nelle proprie azioni, sarà il motore di un rapporto padre-figlio che aiuterà entrambi. Intensa, ed evocativa per certi versi, la sequenza dei due a cena, durante la quale il ragazzo si confida raccontando del proprio padre, che avrebbe voluto per lui una carriera ben diversa da quella di regista di film horror. La padrona del locale offre un dolce, il ragazzo rifiuta e allora Katsu ne afferra una cucchiaiata e lo obbliga a ingoiarla. Subito dopo il giovane si rende conto di quanto sia delizioso e allora entrambi si avventano sorridenti su quanto ne rimane nella ciotola. In quel preciso momento si sblocca definitivamente il loro rapporto. Inoltre sembra rimandare per analogia al personaggio bizzarro interpretato da un giovane e affascinante Yakusho Koji nel film cult Tampopo (1985). Nell’opera di Itami Juzo erano le implicazioni sessuali legate al cibo a prevalere, nel film di Okita il cibo suggella un chiaro, e altrettanto dirompente, avvicinamento affettivo dei due personaggi. Katsu, il rude boscaiolo, è anche quello che si commuove leggendo la sceneggiatura del film di zombi, in un altro passaggio che è una chiara dichiarazione d’amore per il cinema. 
Il tocco leggero e surreale con il quale il regista dipinge i suoi personaggi non è venuto meno nelle opere più recenti: Momoko, protagonista di Ora Ora be Goin’ Alone (2020) è una settantacinquenne che vive in solitudine tra le stanze della propria casa, spingendosi al massimo alla sala d’aspetto del medico o alla locale biblioteca. Il suo mondo mentale è però teso a una ricerca di equilibrio tra fantasia e realtà, in uno spazio immaginario popolato dalle proprie voci interiori o da giganteschi mammut che la seguono come cagnolini. Anche Minami, la studentessa di One Summer Story (2020) appassionata di nuoto e anime, è in definitiva una outsider che il regista segue nell’estate scolastica giapponese mentre va ad incontrare il padre biologico che non vedeva da molto tempo.
Okita affronta il tema della famiglia e dei rapporti genitori-figli in diversi suoi film. In The Mohican Comes Home il giovane Eikichi, leader di un gruppo musicale punk rock, decide di tornare a casa dai genitori per informarli che sta per diventare padre. Poco dopo essere arrivato insieme alla fidanzata sull’isola dove vive la sua famiglia, le cose cambiano perché al padre – un personaggio particolare, anche lui musicista – viene diagnosticata una malattia incurabile. Il film approfondisce con sensibilità mista a ironia i rapporti familiari, quello tra Eikichi e suo padre innanzitutto, ma non solo, anche quello tra la madre e la fidanzata Yuka. Come già era avvenuto per A Story of Yonosuke, il tema della morte si insinua nell’intreccio e, come in tutti i suoi film, il regista riesce a fondere il comico con il drammatico senza mai risultare banale.
Quando si innamorano i personaggi alieni di Okita, il senso di disorientamento è massimo. Yonosuke e Shoko si dichiarano reciproco interesse in una grande sala dominata da una tigre imbalsamata, a casa di lei, sotto lo sguardo neanche troppo irreprensibile di una cameriera, costringendo la ragazza a rintanarsi dietro un tendone per nascondere la propria timidezza. Tempo dopo, durante il Natale nel piccolo alloggio di Yonosuke, li coglie di sorpresa una nevicata e allora scendono in cortile e finalmente si baciano, goffamente, mentre la macchina da presa si muove verso l’altro, lasciandoli soli a correre e ridere sul tappeto bianco. 
 

Il giardino e la memoria

Durante un’intervista di qualche tempo fa il regista aveva confermato: «Tra i diversi generi prediligo le commedie, ma mi piacciono quelle – e vorrei che fosse così anche per i miei film – che fanno riflettere lo spettatore. Vorrei che le persone uscissero dalla sala chiedendosi se si trattasse veramente di una commedia oppure no… ».
Il movimento a salire della macchina da presa dal giardino del pittore Kumagai svela che il riquadro che contiene fiori e piante non è che uno spazio ridotto incastrato tra altre case e altri giardini. Il cambio di prospettiva relativizza, fa riflettere sulla percezione di ciò che ci circonda. 
Il mondo fisico di Momoko, la sua casa, si fonde – con intermezzi tra il comico e il serio-nostalgico – con uno spazio della mente dove si illuminano e prendono vita i ricordi della donna: la giovane arrivata a Tokyo che incontra il futuro marito, la famiglia, il tempo trascorso insieme in armonia. La memoria si fa spazio “abitabile” per  Momoko, le sue voci interiori, i suoi pensieri, dal quale può entrare e uscire, ballarci e sognare, regno pervaso dall’ottimismo mai scontato di Okita Shūichi.

Claudia Bertolé

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