VENEZIA – CLASSICI RESTAURATI
SONATINE CLASSICS
Un sole accecante riempie lo schermo come una palla di fuoco: sull’isola di Kurage, caratterizzata da culti, credenze e superstizioni che si rifanno alla cosmogonia giapponese, vive la famiglia Futori composta dal patriarca Yamamori, dai due figli Nekichi e Uma e dai figli di quest’ultimi, Toriko e Kametaro, frutto del rapporto incestuoso dei primi due. Nekichi e Uma sono considerati come l’incarnazione di due divinità e infatti un tempo la famiglia Futori era la più rispettata dell’isola. Ma a causa della loro cattiva condotta morale (in realtà scopriamo che anche il patriarca Yamamori si è macchiato di colpe incestuose) adesso è considerata come una famiglia maledetta e quindi emarginata dal resto degli abitanti. Nekichi è obbligato a espiare questa colpa scontando una dura condanna: come in un girone dantesco, egli vive incatenato in fossa costretto a scavare per liberare la fossa da un enorme macigno che ostruisce una fonte di acqua dolce - necessaria per la risaia sacra - finito lì a causa di un maremoto come punizione divina per il loro comportamento. Ma, secondo il patriarca, la colpa morale non è l’unico motivo alla base dell’ira degli dei: la tradizionale coltivazione del riso è stata infatti sostituita con quella della canna di zucchero spingendo così l’isola verso quel processo di modernizzazione incarnato dalla figura dell’ingegnere Kariya, inviato sull’isola per costruire un pozzo di acqua necessario alla raffineria di zucchero. Lo stesso ingegnere, tuttavia, finisce per essere “plagiato” dall’isola innamorandosi della folle Toriko mentre il fratello Kametaro, desideroso di abbandonare Kurage e le sue arretratezze, sembra l’unico ad avere la possibilità di cambiare il proprio destino e lasciare l’isola per trasferirsi a Tokyo… ma il finale del film ci racconta un epilogo diverso.
Un libero pensatore
“Quando girai Il profondo desiderio degli dei ebbi parecchi problemi di ogni sorta e cominciai a pensare che gli attori mi sfinivano. Per me erano un fardello. Decisi di darmi al documentario. Per 9 anni girai documentari.” (dichiarazione di Imamura tratta dal documentario Imamura, il libero pensatore, Paulo Rocha, Francia-Portogallo 1995. Opera complessa e dalla lavorazione travagliata (da 6 mesi previsti a 18), con gravi ripercussioni da parte della Nikkatsu (con la casa di produzione Imamura aveva già avuto contrasti all’uscita di Porci geishe e marinai nel 1961) Il profondo desiderio degli dei segna una improvvisa (ma non inaspettata) battuta d’arresto nella carriera di Imamura dopo una serie di titoli che colloca l’autore tra i registi più significativi della Nūberu bāgu, la “nouvelle vague” giapponese. Da Cronache entomologiche del Giappone (1963) a Evaporazione dell’uomo (1967), passando per Introduzione all’antropologia (1966), i film di questa prima fase di Imamura consolidano la sua poetica antropologica ed entomologica di spietato osservatore e indagatore della società giapponese attraverso uno sguardo volutamente sporco, sgradevole e disturbante che getta una luce del tutto originale sulle contraddizione del Giappone moderno.
Uomini (donne) e topi
Fautore di un cinema antropologico che non teme di scandagliare gli istinti primari delle persone, Imamura mette in scena dei gruppi sociali caratterizzati da dinamiche estremamente conflittuali e autodistruttive. Il profondo desiderio degli dei non sfugge a questa regola, innestando sul clan dei Futori, i “brutti, sporchi e cattivi” protagonisti del film, un côté mitico e animistico legato alle antiche credenze giapponesi. Questo suo sguardo antropologico fa il paio con l’altra tendenza assai cara al regista giapponese ovvero l’ampio ricorso a elementi del mondo animale: Imamura utilizza gli animali sia all’interno del tessuto diegetico del film, mostrandoli mentre “interagiscono” con i personaggi umani sia come elemento connotativo extradiegetico per rafforzare il senso delle immagini, senza, quindi, una funzione narrativa e diegetica esplicita. Sin dalla prima sequenza, Imamura indugia su un serpente d’acqua, poi un mollusco repellente, quindi un pesce dalle forme raccapriccianti, per poi passare a un altro animale, inquadrato con un camera look in primissimo piano, ansimante verso lo spettatore, per continuare con un rospo, una ragnatela sino alla lucertola dalla coda tranciata a causa del cingolato. Pur non raggiungendo la funzione didascalica del montaggio analogico classico (per capirci le galline di Fritz Lang in Furia) è innegabile che l’istanza connotativa del montaggio si faccia sentire. C’è un legame tra gli animali e lo stato di natura animalesco dei personaggi (dalla “ritardata” Toriko all’incatenato Nekichi costretto a vivere in una pozza) che il montaggio si incarica di esplicitare, un po’ come il gruppo di sadici ragazzini alle prese con scorpioni e formiche in Il mucchio selvaggio (1969) di Peckinpah e che Imamura sembra anticipare nella scena in cui l’ingegnere Karya viene “attaccato” dalle formiche. Ci sono poi singole sequenze dedicate alla pesca in cui, necessariamente, vediamo esemplari del regno animale, ma anche in questo caso la rappresentazione scenica si carica di una violenza e di un senso di repellenza che Imamura non si preoccupa certo di limitare. È il caso della scena in cui Toriko agguanta con le mani un topo mostrandolo al pubblico come fosse un trofeo di caccia e suggerendo in maniera esplicita l’utilizzo che ne verrà fatto. Un vero e proprio bestiario, quello di Imamura, ricco di insetti a dimostrazione della sua vocazione entomologica resa in modo esemplare dalla celebre sequenza iniziale dell’insetto in Cronache entomologiche del Giappone (straordinario e affascinante titolo che la distribuzione internazionale, probabilmente colpita dalla celebre sequenza iniziale, tradusse, non a torto, con The Insect Woman).
Il bestiario di Imamura comprende ovviamente anche gli esseri umani, le cui relazioni primarie sfuggono alle regole dell’esogamia: non ci sono totem così forti - nemmeno la risaia sacra per la quale Nekichi è condannato a scavare - da impedire l’incesto all’interno del clan Futori come ci dimostrano le diverse scene esplicite tra Nekichi e Uma, (“la gente pensa che siamo amanti… per questo ci definiscono bestie” dice Nekichi mentre insidia la sorella) in particolare quella all’interno della fossa caratterizzata da un crescendo erotico selvaggio che raggiunge il climax nel momento in Nekichi si getta sulla sorella mordendole con furia cieca il capezzolo.
“In Il profondo desiderio degli dei senza una base di nozioni etnografiche non è facile capire i sentimenti degli isolani, discernere il vero dal falso. Tutti i cineasti devono studiare, in particolare il rapporto tra l’ambiente e il progresso di coloro che lo abitano.” (Imamura, il libero pensatore, cit).
Valerio Costanzia
Titolo originale: 神々の深き欲望 (Kamigami no fukaki yokubō); regia: Imamura Shōhei; soggetto e sceneggiatura: Hasabe Keiji, Imamura Shōhei; fotografia: Tochizawa Masao; montaggio: Tanji Matsuo; scenografia: Ōmura Takeshi; musica: Mayuzumi Toshirō; interpreti: Mikuni Rentarō (Futori Nekichi/il figlio incatenato di Futori Yamamori), Kawarasaki Chōichirō (Futori Kametaro/il figlio di Nekichi), Okiyama Hideko (Futori Toriko/la figlia ritardata di Nekichi), Arashi Kanjūrō (Futori Yamamori/il patriarca), Matsui Yasuko (Futori Uma/la figlia sacerdotessa di Futori Yamamori), Katō Yoshi (Ryu Ritsugen/il capo villaggio), Hara Izumi (Ryu Unari), Kitamura Kazuo (Kariya/l’ingegnere); produzione: Hasegawa Kazuhiko, Takano Hiroshi, Yamanoi Masanori, Yamashita Minoru - Nikkatsu; durata: 172’; uscita in Giappone: 22 novembre 1968; restauro: a cura di Nikkatsu Corporation.
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