Hanezu no tsuki (朱花の月, Hanezu). Regia, sceneggiatura,
fotografia, montaggio: Kawase Naomi. Soggetto:
da un romanzo di Bandō Masako. Scenografia:
Inoue Kenji. Musica: Hashiken. Suono: Ito Hiroki. Interpreti e personaggi: Komizu Tōta (Tatsumi) , Ōshima Hako (Kayoko),
Akikawa Tetsuya (Tetsuya). Produzione:
Kumie Inc., Kashihara-Takaichi Regional Administrative Association. Durata: 91’. Uscita nelle
sale giapponesi: 3 settembre 2011.
Punteggio ★★★
Siamo «là dove è nato il
Giappone», ad Asuka, un villaggio nella prefettura di Nara, immerso nelle
campagne. La parola hanezu indica un
tipo di rosso, tendente al cremisi, e fa la sua prima apparizione nel Man’yōshū, la più antica collezione di
poesie giapponesi, risalente alla seconda metà dell’VIII secolo. In uno dei
poemi più noti dell’opera si immagina un triangolo sentimentale dove due monti
(il Kagu e il Miminashi) competono per conquistarne un terzo (l’Unebi). Nel
film della Kawase, che non a caso inizia con le immagini degli scavi
archeologici di Asuka, il mito si realizza nella vicenda di Kayoko, sposa di
Tetsuya, e amante (la parola non è la più appropriata) di Takumi. Ma il
passaggio dal Mito alla Realtà dell’oggi non è diretto, bensì mediato dalla
Storia, tramite i flashback che riprendono il dramma di Kayoko e Takumi
attraverso le vicissitudini dei rispettivi nonni, anch’essi tragicamente divisi
da un fato che impedì loro di realizzare ciò che provavano l’uno per l’altro. Allineando i tempi del mito, della storia e
del presente, la Kawase mette in scena l’eternità del sentimento d’amore e
l’ineluttabilità della sofferenza che esso sempre implica. L’amore sembra qui
essere un sentimento senza speranza, qualcosa che può darsi solo attraverso
l’assenza dell’altro (o perlomeno di una sua presenza molto parziale), che vive
e si nutre di quest’assenza e quasi sembra non poterne fare a meno (bellissima
la scena in cui Tetsuya accoglie in casa la fradicia Kayoko, dopo che questa
gli ha rivelato di amare un altro, la spoglia per asciugarla, l’abbraccia e la
bacia: quasi che questa intimità fisica non possa che nascere dalla
consapevolezza della fine del loro amore e del suo imminente farsi assenza).
Sebbene i gesti e le azioni che
compongono il film appartengano ad un orizzonte certamente minimalista (si
vedano a mo’ di esempio le scene in cui si preparano e consumano i pasti), Hanezu ricorre anche a vere e proprie
impennate drammatiche che arrivano a comprendere il suicidio di uno dei tre
protagonisti, e conferiscono al racconto un andamento piuttosto mosso (reso
tale anche dal trattamento nel contempo sorprendente, ellittico ed ambiguo
della maternità della donna). Come sempre nel cinema della Kawase, la natura
gioca un ruolo da protagonista, che si traduce nel lirismo della sua
messinscena affidata a lunghi piani contemplativi, che si intrecciano ai
sentimenti dei personaggi, li modulano, danno loro il tempo di esistere. Yama no oto («Il suono della montagna»)
è il titolo di uno dei più noti romanzi di Kawabata Yasunari, che avrebbe
potuto benissimo fungere da sottotitolo di Hanezu
no tsuki («La luna cremisi»), tanto nel film a contare sono (quasi)
soprattutto i rumori: quelli dei cibi che sono masticati e deglutiti, del
respiro affannoso di Kayoko che pedala sulla sua bicicletta attraversando i
campi coltivati, di due insetti che lottano fra loro, della pioggia che
scroscia con violenza. In generale tutto il film è pervaso da una sorta di
respiro della natura che ammanta le immagini di una materialità fisica, e contribuisce a quella coniugazione
del corpo e dello spirito che è una delle ragioni d’essere del cinema di Kawase
Naomi. [Dario Tomasi] .

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