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29° Torino Film Festival (25 novembre - 3 dicembre 2011)
Chi ha visto anche solo un film che
la Sushi Typhoon, la casa di produzione nata nel 2010 sotto l'egida della gloriosa
Nikkatsu, ha prodotto finora, si sarà sicuramente fatto/a un'idea del genere di
opere che la compagnia sforna: Alien
vs Ninja, Cold Fish, Helldriver o Karate-Robo Zaborgar sono solo alcune delle pellicole note anche al
di fuori del Giappone. La Sushi Typhoon vanta nella sua scuderia registi come
Sono Sion, Miike Takashi e Iguchi Noboru ma anche un gruppo di attori che spesso
interpretano i personaggi più o meno deliranti che incontriamo nei loro film.
Uno di questi è Kishi Kentarō che ha esordito dietro la macchina da presa nel
2011 proprio con il film qua recensito.
Dimenticatevi della Sushi Typhoon.
Il debutto di Kishi ha rivelato un regista capace di creare un'opera anni luce
distante dalle tematiche e dall'approccio dei film in cui solitamente recita
per regalarci una delle visioni giapponesi più stimolanti dell'anno in corso.
Nelle proiezioni avvenute a Tokyo la pellicola è stata preceduta da un
corto/footage dal titolo "Immigration" girato dallo stesso Kishi
quando si recò a Gerusalemme, questo perchè i pochi minuti registrati durante
il suo viaggio nel 2007 a Ramallah in Medio Oriente sono stati, secondo lo
stesso regista, la fonte d'ispirazione principale per il film.
L'inizio è folgorante, quasi da
film sperimentale, e ci presenta i due protagonisti, Sachi e Osamu, una giovane
coppia che si trasferisce in una vecchia casa per avviare una scuola.
L'edificio sembra essere stato abbandonato in gran fretta dai precedenti
inquilini che vi hanno lasciato mobilio e oggetti. I ragazzi scoprono che si
tratta della sede di una ex scuola gestita da un insegnante dai metodi
innovativi: utilizzando le sedie, i banchi e i giocattoli lasciati dal
professore, la ragazza avverte un senso di déjà-vu.
La storia comincia in modo labirintico con un andamento a spirale dove passato
e futuro si incrociano spesso in uno spazio che sembra più qualcosa di
immaginato dai due protagonisti che un presente dove accadono gli eventi. Fin
dalle prime battute, infatti, ci viene ripetuto che forse la protagonista è
intrappolata nel sogno della madre. Ma il pregio del film non è questo, di
opere che si perdono pur avendo dei presupposti filosofici non indifferenti ce
ne sono tante. Kishi, con l'aiuto dell' eccellente performance dei suoi attori,
riesce a non essere mai banale e a sperimentare col e nel linguaggio
cinematografico e nell'approccio alla narrazione. Uso di filtri, immagini a
saturazione diversa, loop, time lapse, un'insistenza nell'uso di riprese con
videocamera a mano filtrate da vetri, porte, soglie, passaggi a livello e, come
filo conduttore simbolico, le scene di un teatrino di carta che
raccontano la storia di Cappuccetto Rosso. Tutto questo si intreccia per
formare quella trama di immagini su cui Kishi riesce a sviluppare temi
importanti come la colpa, la memoria, l'impossibilità di dimenticare e la
necessità di ricordare. Ciò che viene svelato fotogramma dopo fotogramma, scena
dopo scena, in una composizione di immagini che a volte può sembrare caotica,
emerge verso la metà del film quando il dramma passato/futuro del protagonista
Osamu viene rivelato allo spettatore.
Anche in questa pellicola, come in
molti altri film, pregio ed allo stesso momento limite di certa cinematografia
giapponese, vengono toccate problematiche come quella della famiglia, dei
rapporti personali e della violenza che spesso da questi scaturisce. Ma, ed è
una sana boccata d'aria ed uno degli indubbi meriti di questo lavoro, questi
elementi non finiscono per "mangiarsi" il film in una tanto giusta
quanto facile critica sociale. Al contrario, pur essendo queste in qualche modo
le colonne su cui si sviluppa la narrazione, esse non rappresentano il cuore
pulsante del film. Record Future è
infatti, ma ognuno sarà libero di trovare quello che cerca in quest'opera che è
per sua natura aperta a molteplici interpretazioni, un film sulla consistenza
del tempo e sulla coesistenza e sovrapposizione fra passato e futuro, su come
ogni singolo istante sia attraversato da una moltitudine di possibilità
compresenti, siano esse schegge di passato o futuri possibili. Kishi riesce in
questo senso a liberare e restituirci la potenza plurima e ambigua delle
immagini. Questo senso di compresenza traspare già nelle battute iniziali
quando vediamo i due protagonisti all'interno della scuola attraverso il vetro
della finestra, ovvero il punto di vista della videocamera ed il nostro è
quello di un occhio esterno che li sta osservando. Ad un certo punto per pochi
istanti intravvediamo delle dita sfiorare la finestra dall'esterno, cioè dalla
"nostra" parte. Sebbene sia una tecnica abbastanza comune e quasi
abusata per creare tensione, specialmente nel genere thriller e quello horror,
qui ci suggerisce quasi un senso di sovraimpressione del tempo e di ripetizione
quasi preregistrata degli eventi. Lo stesso uso della voce esterna da parte
dei protagonisti lungo tutto il film, quasi a commentare quello che sta
succedendo come fosse un ricordo o un sogno immaginato, è fondamentale per
creare questo effetto disorientante che accompagna tutta l'opera fino alla sua
conclusione. [Matteo Boscarol]
Visto ieri al festival, e mi è piaciuto molto. Concordo con la tua analisi e con il giudizio positivo. Io parto sempre un po' prevenuto con le pellicole di natura sperimentale, ma questa mi ha tenuto incollato alla poltrona dall'inizio alla fine. Mi dispiace di non aver assistito all'incontro con l'autore.
RispondiEliminami fa piacere e mi fa sentire meno solo.... :)
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