giovedì 22 dicembre 2011

Kotoko


KOTOKO. Regia, sceneggiatura e montaggio: Tsukamoto Shin’ya. Fotografia: Tsukamoto Shin’ya, Hayashi Satoshi. Scenografia, coreografia e musica: Cocco. Suono: Kitada Masaya. Interpreti e personaggi: Cocco (Kotoko), Tsukamoto Shin’ya (Tanaka). Produzione: Kaiju Theater Co., Makotoya. Durata: 91’. Prime proiezioni: 8 settembre 2011 Festival del Cinema di Venezia (anteprima assoluta); 14 settembre 2011 Toronto International Film Festival; 7 ottobre 2011 Pusan International Film Festival; 26 novembre 2011 Tokyo FILMeX. Uscita nelle sale giapponesi: 7 aprile 2012

Girato in digitale e premiato quale Miglior Film della Sezione Orizzonti all’ultimo Festival di Venezia, Kotoko rappresenta, dopo le incertezze del  terzo capitolo della serie Tetsuo e del dittico di Nightmare Detective, un ritorno al miglior Tsukamoto. Il film è figlio dell’incontro fra il regista e la cantante Cocco, già autrice delle musiche di Vital, che oltre a interpretarne il ruolo di protagonista, Kotoko, ne ha curato anche le scenografie e le coreografie. L’opera è quasi una summa della poetica di Tsukamoto nel suo guardare all’uomo – e soprattutto alla donna – nell’inestricabile connubio di corpo e mente, così come lo è sul piano dello stile e della messinscena, per l’aggressività del suo linguaggio che attraverso l’uso insistito della macchina a mano, delle soggettive e dei piani ravvicinati, nonché dei continui slittamenti tra ‘reale’ e immaginario, traduce con grande efficacia audiovisiva il senso d’angoscia insostenibile che pervade l’intera vicenda.
Kotoko è una giovane madre single che vive con profonda e sentita inadeguatezza il proprio ruolo. È ossessionata da tutti coloro che incontra, di cui vede sempre materializzarsi una sorta di doppio malefico e crudele (l’altro che è in ognuno di noi). Non regge all’idea che la vita del piccolo Daijirō dipenda dalle sue «fragili braccia» femminili. È così le immagini di possibili catastrofi – che solo in un momento successivo il film ci rivela come visioni – si susseguono a ripetizione: il bambino che cade dal balcone, che si infila in un occhio una matita dalla punta acuminata, che è investito da un auto in un fragore assordante. In una delle scene più riuscite del film, Kotoko cerca disperatamente di cuocere del cibo in un wok, mentre tiene in braccio il piccolo che strepita, in un crescendo drammatico che oltrepassa, proprio per la sua assoluta quotidianità, le soglie del sostenibile. 
Il fascino del film risiede anche sui diversi registri su cui si costruisce: come quelli sentimentali – ma autenticamente tali – della visita della madre al figlio che le è stato sottratto per essere affidato alla sorella,  o comico-grotteschi, come nella scena in cui Tanaka, uno scrittore interpretato dallo stesso Tsukamoto che di Kotoko si è innamorato, cerca di soccorrerla dopo che lei si è ripetutamente tagliata le braccia, trovando solo dei pannolini al posto degli asciugamani. Di notevole importanza anche i momenti cantati e danzati, gli unici in cui Kotoko si sente libera dalle proprie ossessioni: come quello della lunga canzone che lei dedica a Tanaka, o quello che apre il film, dove la danza scomposta della donna davanti al mare è bruscamente interrotta da un suo premonitore urlo.
La parte centrale della pellicola è affidata all’incontro fra Kotoko e Tanaka e alla loro relazione, all’amore ossessivo dell’uomo e alle paure della donna, alla dimensione sadomasochistica del loro rapporto, dove il corpo violato, i tagli sulle braccia, il volto tumefatto sono i segni del tentativo di penetrare in una dimensione che nella sua radicale eccezionalità sembra essere l’unica possibile per poter davvero accettare ed essere accettati dall’altro. Amare è oltrepassare una soglia, varcare un limite, infrangere un tabù: è questo tabù, qui come in altri momenti del cinema di Tsukamoto, è quello dell’inviolabilità del corpo.
Kotoko è, e forse in primo luogo, un film esemplare di quel sottogenere narrativo che potremmo chiamare della ‘discesa agli inferi’, ovvero di quelle storie che narrano il precipitare di qualcuno in un abisso di follia in cui si arriva progressivamente a perdere il controllo di sé e del mondo che ci circonda. Quando la giovane protagonista riesce ad avere di nuovo il piccolo Daijirō, tutto ritorna tale e quale come prima. Le ossessioni sono sempre le stesse. A nulla sembra essere servito la violenta relazione con Tanaka, che il film ha volutamente fatto scomparire nel nulla. Siamo prigionieri di noi stessi e del mondo che ci siamo costruiti intorno. La realtà è solo quella che la nostra mente filtra, adattandola alle proprie storture. L’epilogo del film è un momento sublime. Daijirō ormai cresciuto va a trovare la madre ricoverata in una casa di cura. Le racconta della sua vita a scuola, degli sport che pratica. Le fa un origami a forma di cicogna (forse un rimando all’Orizuru O-sen di Mizoguchi del 1935). Ma la donna, seduta al tavolo davanti al figlio, non apre mai bocca e tace per tutto il tempo. Dopo il saluto di Daijirō, Kotoko si affaccia alla finestra, per vederlo mentre si allontana. Questi, consapevole dello sguardo materno, si nasconde dietro un albero, per poi ricomparire all’improvviso, proprio come la madre faceva con lui, quando andava a fargli visita dalla sorella. Tutto si ripete e rimane. Niente si dimentica. Difficile trattenere le lacrime (quelle autentiche, che solo il grande cinema ci fa versare). [Dario Tomasi]





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