KOTOKO.
Regia, sceneggiatura e montaggio:
Tsukamoto Shin’ya. Fotografia: Tsukamoto Shin’ya, Hayashi Satoshi. Scenografia, coreografia e musica:
Cocco. Suono: Kitada Masaya. Interpreti e personaggi: Cocco (Kotoko),
Tsukamoto Shin’ya (Tanaka). Produzione:
Kaiju Theater Co., Makotoya. Durata:
91’. Prime proiezioni: 8 settembre
2011 Festival del Cinema di Venezia (anteprima assoluta); 14 settembre 2011
Toronto International Film Festival; 7 ottobre 2011 Pusan International Film
Festival; 26 novembre 2011 Tokyo FILMeX. Uscita nelle sale giapponesi: 7 aprile 2012
Link: Asia Express - CineClandestino -The Eight Samurai - Indie eye - JFilm Pop-Wow - MyMovies.it - Video dibattito con Tsukamoto al Toronto International Filmfestival 2011
Punteggio ★★★★1/2
Punteggio ★★★★1/2
Girato
in digitale e premiato quale Miglior Film della Sezione Orizzonti all’ultimo
Festival di Venezia, Kotoko
rappresenta, dopo le incertezze del
terzo capitolo della serie Tetsuo
e del dittico di Nightmare Detective,
un ritorno al miglior Tsukamoto. Il film è figlio dell’incontro fra il regista
e la cantante Cocco, già autrice delle musiche di Vital, che oltre a interpretarne il ruolo di protagonista, Kotoko,
ne ha curato anche le scenografie e le coreografie. L’opera è quasi una summa
della poetica di Tsukamoto nel suo guardare all’uomo – e soprattutto alla donna
– nell’inestricabile connubio di corpo e mente, così come lo è sul piano dello
stile e della messinscena, per l’aggressività del suo linguaggio che attraverso
l’uso insistito della macchina a mano, delle soggettive e dei piani
ravvicinati, nonché dei continui slittamenti tra ‘reale’ e immaginario, traduce
con grande efficacia audiovisiva il senso d’angoscia insostenibile che pervade
l’intera vicenda.
Kotoko
è una giovane madre single che vive con profonda e sentita inadeguatezza il
proprio ruolo. È ossessionata da tutti coloro che incontra, di cui vede sempre
materializzarsi una sorta di doppio malefico e crudele (l’altro che è in ognuno di noi). Non regge all’idea che la vita del
piccolo Daijirō dipenda dalle sue «fragili braccia» femminili. È così le
immagini di possibili catastrofi – che solo in un momento successivo il film ci
rivela come visioni – si susseguono a ripetizione: il bambino che cade dal
balcone, che si infila in un occhio una matita dalla punta acuminata, che è
investito da un auto in un fragore assordante. In una delle scene più riuscite
del film, Kotoko cerca disperatamente di cuocere del cibo in un wok, mentre tiene in braccio il piccolo
che strepita, in un crescendo drammatico che oltrepassa, proprio per la sua
assoluta quotidianità, le soglie del sostenibile.
Il
fascino del film risiede anche sui diversi registri su cui si costruisce: come
quelli sentimentali – ma autenticamente tali – della visita della madre al
figlio che le è stato sottratto per essere affidato alla sorella, o comico-grotteschi, come nella scena in cui
Tanaka, uno scrittore interpretato dallo stesso Tsukamoto che di Kotoko si è
innamorato, cerca di soccorrerla dopo che lei si è ripetutamente tagliata le
braccia, trovando solo dei pannolini al posto degli asciugamani. Di notevole
importanza anche i momenti cantati e danzati, gli unici in cui Kotoko si sente
libera dalle proprie ossessioni: come quello della lunga canzone che lei dedica
a Tanaka, o quello che apre il film, dove la danza scomposta della donna
davanti al mare è bruscamente interrotta da un suo premonitore urlo.
La
parte centrale della pellicola è affidata all’incontro fra Kotoko e Tanaka e
alla loro relazione, all’amore ossessivo dell’uomo e alle paure della donna,
alla dimensione sadomasochistica del loro rapporto, dove il corpo violato, i
tagli sulle braccia, il volto tumefatto sono i segni del tentativo di penetrare
in una dimensione che nella sua radicale eccezionalità sembra essere l’unica
possibile per poter davvero accettare ed essere accettati dall’altro. Amare è
oltrepassare una soglia, varcare un limite, infrangere un tabù: è questo tabù,
qui come in altri momenti del cinema di Tsukamoto, è quello dell’inviolabilità
del corpo.
Kotoko è, e forse in primo luogo, un
film esemplare di quel sottogenere narrativo che potremmo chiamare della
‘discesa agli inferi’, ovvero di quelle storie che narrano il precipitare di
qualcuno in un abisso di follia in cui si arriva progressivamente a perdere il
controllo di sé e del mondo che ci circonda. Quando la giovane protagonista
riesce ad avere di nuovo il piccolo Daijirō, tutto ritorna tale e quale come
prima. Le ossessioni sono sempre le stesse. A nulla sembra essere servito la
violenta relazione con Tanaka, che il film ha volutamente fatto scomparire nel
nulla. Siamo prigionieri di noi stessi e del mondo che ci siamo costruiti
intorno. La realtà è solo quella che la nostra mente filtra, adattandola alle
proprie storture. L’epilogo del film è un momento sublime. Daijirō ormai
cresciuto va a trovare la madre ricoverata in una casa di cura. Le racconta della
sua vita a scuola, degli sport che pratica. Le fa un origami a forma di cicogna (forse un rimando all’Orizuru O-sen di Mizoguchi del 1935). Ma la donna, seduta al
tavolo davanti al figlio, non apre mai bocca e tace per tutto il tempo. Dopo il
saluto di Daijirō, Kotoko si affaccia alla finestra, per vederlo mentre si
allontana. Questi, consapevole dello sguardo materno, si nasconde dietro un
albero, per poi ricomparire all’improvviso, proprio come la madre faceva con
lui, quando andava a fargli visita dalla sorella. Tutto si ripete e rimane.
Niente si dimentica. Difficile trattenere le lacrime (quelle autentiche, che
solo il grande cinema ci fa versare). [Dario
Tomasi]
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