Mogari no mori (殯の森, The Mourning Forest). Regia e soggetto: Kawase Naomi . Montaggio:
Tina Baz, Oshige Yuji . Operatore di
macchina: Nakano Hideyo. Operatori
del suono: Ao Shigetake, Vincent Mauduit, Takada Rin, David Vranken. Musica originale: Shigeno Masamichi. Interpreti e personaggi principali: Uda Shigeki
(Shigeki); Ono Machiko (Machiko); Watanabe Makiko (Wakako); Saitō
Yoichirō (Mako). Produzione: Celluloid Dreams,
Centre National de la Cinématographie, Kumie, Visual Arts College. Durata: 97'. Uscita nelle sale giapponesi: 23 giugno 2007.
Link: Sito ufficiale - Videointervista a Kawase Naomi (Sentieri Selvaggi) - Intervista a Kawase Naomi di Christopher Bourne (Meniscus Magazine) - Mark Schilling (Japan Times), Catherine Munroe Hotes (Nishikata Film Review)
Punteggio ★★★★
Dopo aver perso un figlio in
tenera età, la giovane Machiko inizia a lavorare in una residenza per anziani
immersa nel verde. Uno degli ospiti della casa è il signor Shigeki, vedovo da ormai
trentatre anni, malato di Alzheimer: in occasione del suo compleanno i due si
recano in città, ma l’autovettura condotta da Machiko finisce fuori strada.
Mentre la donna cerca aiuto, l’anziano si addentra nella foresta, dove i due
personaggi compiono un viaggio nel loro passato, ritrovando serenità nel ricordo dei loro cari
perduti.
Venticinque secondi di macchina
fissa sul vento che scuote le fronde di un bosco, poi una piccola processione funebre
in campo lunghissimo, dapprima impercettibile - stendardi bianchi e un parasole
rosso che spuntano dai campi coltivati, i rintocchi di una campana - e poi visibile,
ma fisicamente sovrastata dalla natura: così si apre il film che ha regalato a Kawase Naomi
un meritatissimo Grand Prix a
Cannes 2007. Due inquadrature semplici –
apparentemente, soltanto un prologo - a rivelare una poetica profonda, che
esplora il rapporto fra uomo e natura, il senso della morte e le relazioni
intergenerazionali, per proporre una revisione dei frenetici ritmi di vita
indotti dalla società dei consumi. Temi qui affidati al doloroso percorso
dell’accettazione di una duplice assenza (della moglie Mako per Shigeki,
del figlioletto per Machiko) che i due protagonisti compiono insieme,
avvicinandosi sempre più nel corso della storia.
La centralità della natura ha,
nel cinema della Kawase, una forte impronta umanistica. L’interesse
dell’autrice s’incentra sulla catena umana delle generazioni che si susseguono
e sul ritmo naturale della nascita e della morte. Nella foresta dei lamenti il
telefono cellulare non ha campo: la tecnologia portatile (la modernità superficiale,
e quindi sterile) manifesta tutta la sua impotenza davanti alle questioni di
senso. Sono vivo? Questa la domanda che Shigeki rivolge al sacerdote
buddhista, per scoprire che essere vivo è esistere, nutrirsi (e, puntualmente,
il cibo - preparato, consumato - è elemento ricorrente nelle opere della
Kawase), ma soprattutto sentirsi vivi, e vivere insieme, allacciati gli uni
agli altri.
Non è un caso se il tempo della
disperazione e della rabbia è quello che Machiko e Shigeki vivono in
solitudine, all’inizio del film, quando si inseguono e si nascondono, quando
l’anziano è violento nei confronti della giovane e ne distrugge il nome,
scritto in bella calligrafia, per sostituirlo con quello della defunta moglie.
Il rapporto è però destinato ad invertirsi, non sarà più la giovane a prendersi
cura dell’anziano, bensì quest’ultimo ad indicare la strada: i due protagonisti
procederanno insieme nella foresta, Shigeki consentirà a Machiko di portare
sulle spalle il suo pesante e prezioso zaino pieno di ricordi. Alla fine del
viaggio, Machiko potrà sostituire i molti “mi dispiace” pronunciati
(all’indirizzo del padre del figlio; sul luogo di lavoro) con un “grazie”,
avendo compreso il suo destino grazie a Shigeki. Non più la percezione di
essere inadeguati, ma l’accettazione del proprio piccolo ruolo nell’universo.
La strategia narrativa della
Kawase prevede la creazione di un ambiente scenico in grado di suscitare negli
attori sentimenti e sensazioni in modo per così dire “naturale”, prescindendo
da una sceneggiatura dettagliata in favore di un percorso narrativo di tipo lineare,
che dalla situazione di partenza - il dolore per l’assenza delle persone amate
- condurrà alla stazione d’arrivo - l’accettazione del ritmo naturale della
vita. Di qui anche l’utilizzo di attori
non professionisti (nella vita Shigeki Uda è un libraio di Nara, al debutto
davanti alla macchina da presa) e l’impronta documentaristica dell’opera,
evidente soprattutto nelle riprese dei volti (che ricordano assai da vicino il
Koreeda di After Life, anche per la
evidentissima compartecipazione dell’autore) e delle occupazioni materiali,
come la raccolta dei frutti e la lavorazione del legno (dove la predilezione
per i campi lunghi viene abbandonata in favore dei primi piani).
La bellezza del cinema della Kawase
sta nella sua celata profondità: immagini apparentemente semplici svelano
contenuti che sono altro rispetto all’oggetto della rappresentazione. “Credo
che l’immagine non debba essere l’unica cosa visibile sullo schermo, perché
dietro ad ogni immagine c’è ancora molto altro da vedere. È per questo che con
il mio cinema cerco di andare oltre l’immagine, dietro di essa. In ogni
inquadratura cerco di mostrare i sentimenti che si nascondono dietro
l’immagine”. Risultato al quale la Kawase perviene anche dilatando i tempi
filmici, che amplificano situazioni e sensazioni (la disperazione di Machiko
nel bosco; la maestosità della natura) e creano nello spettatore un particolare
stato empatico.
Quanto sta dietro all’immagine
viene svelato anche grazie alla mai casuale composizione dei piani (penso, ad
esempio, alle riprese in cui Machiko è “filtrata” da fiori o foglie, quasi a
difenderne la fragilità; così come Shigeki è spesso in ombra nella prima
parte del film), a certe modalità della recitazione (le carezze con le quali Shigeki tranquillizza il pianto di Machiko nella foresta dei lamenti sono
ruvide, primordiali), ai movimenti di macchina (molto spesso a mano, sempre
perfettamente sincronizzati con lo stato d’animo dei personaggi ripresi), alle
scelte di luce (anche e soprattutto quando è bandita ogni forma d’illuminazione
artificiale, come nell’intensissimo corpo a corpo notturno che si svolge nella
foresta, con i protagonisti immersi in una profondissima oscurità, irradiati soltanto
dal rosso acceso di un falò).
Quello di Kawase Naomi è un
cinema elegante, appassionato, paradossalmente sereno: un cinema universale,
perché affronta i dolori che ciascuno di noi, prima o dopo, è tenuto ad
affrontare. [Gian Piero Chieppa]
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