Tsunami no ato ni (津波の後に, Lives After the Tsunami). Regia,
fotografia e montaggio: Morimoto Shūichi. Durata: 74'. Anno: 2011.
Continuiamo il nostro
viaggio nel mondo del documentario giapponese per vedere come gli autori
impegnati in questo genere abbiano reagito al disastro causato dal terremoto e
dallo tsunami dello scorso 11 marzo. Questa volta analizziamo il breve lavoro,
in totale sono 74 minuti, con il quale il giovane regista Morimoto Shūichi ha
provato a descrivere e ad affrontare le zone del disatro e secondariamente le persone colpite dalla
tragedia. Quest'opera si discosta abbastanza
nettamente tanto dal punto di vista dell'approccio quanto per la realizzazione
rispetto agli ultimi due documentari che abbiamo fin qui analizzato, Mujin chitai (No Man's
Land) e Fukushima: Memories of the Lost Landscape. Dove questi ultimi sono più
riflessivi e, il primo, espande addirittura le prolematiche legate strettamente
al disastro in un quadro concettuale quasi filosofico, Tsunami no ato ni
si presenta come un semplice documento e una testimonianza dei luoghi visitati
da Morimoto subito dopo il terremoto. Il regista si reca nella zona di
Ishinomaki inizialmente non tanto con la volontà di farne un film, ma con il
procedere del tempo, soprattutto quando incontra persone che lo invitano a
filmare e a far sì che il Giappone non si dimentichi di loro, si vede quasi
costretto a continuare a riprendere e costruire quindi un'opera. Proprio per il
modo in cui questo lavoro-testimonianza vede la luce allora, abbondano le
riprese in carellata laterale dalla macchina prima e dalla bicicletta quando il
passaggio è ostruito, delle decine e decine di chilometri di devastazione. È
vero che Morimoto riesce a scambiare qualche parola con alcuni sopravvissuti,
ma sono brevi conversazioni sulla strada che hanno sì il pregio di darci
un'idea abbastanza precisa del dolore e della situazione di scacco psicologico
di queste persone, ma non riescono però ad andare in più in profondità e tirar
fuori qualcosa di meno istintivo e più riflessivo e ampio agli abitanti delle
zone. Si ha l'impressione, e pensiamo che sia anche quella del regista anche se
non esplicitamente dichiarata, che chilometri e chilometri di distruzione e
minuti e minuti di carellate laterali e inquadrature tremolanti, alla fine ci
facciano perdere il senso di quello che stiamo guardando e ci lasci con un
senso di insensatezza e di amarezza, non tanto per il dolore provato, quanto
piuttosto per la sua assenza. [Matteo Boscarol]

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