martedì 3 gennaio 2012

Daijōbu. Shōnikai Hosoya Ryōta no kotoba (大丈夫。~小児科医・細谷亮太のコトバ~)


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Con la recensione presentata qua sotto, Sonatine apre una nuova sezione curata da Matteo Boscarol e dedicata ai documentari giapponesi. E' questo un campo tanto poco seguito quanto importante e sebbene le opere siano di difficile reperibilità riteniamo valga la pena almeno di segnalare la loro esistenza per vedere, o almeno tener presente, quella produzione cinematografica che di solito passa sotto il radar della critica e degli appassionati. 
L'arte documentaria è importante anche per vedere come storie marginali, internazionali, personali o comunitarie contribuiscano a formare quel discorso che concorre a creare la contemporaneità del Giappone e per captare, nei migliori dei casi, le trasformazioni ed i cambiamenti che plasmano la società giapponese  e le vite dei suoi singoli abitanti.
Il documentario è anche un luogo privilegiato per ragionare sull'essenza dell'atto del filmare stesso con le sue implicazioni etiche e sociali e per gettare luce sul quel confine fluido e mutevole che divide fiction e documentazione storica e sociale.

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Daijōbu. Shōnikai Hosoya Ryōta no kotoba (大丈夫。~小児科医・細谷亮太のコトバ~) Regia, soggetto e fotografia: Ise Shinichi. Produzione: IseFilm. Durata: 85'. Anno: 2011

Documentario tratto dalle più di mille ore girate nel corso di un decennio da Ise Shinichi, Daijōbu è un lavoro che nella semplicità dei suoi mezzi tecnici, una videocamera digitale, si prefigge di portare sullo schermo l'esperienza del pediatra Hosoya Ryōta. Specialista nella cura del cancro dei bambini, il medico ormai da 40 anni, anche grazie ad un campo estivo annuale documentato in un altro documentario, "Kaze no katachi" del 2009, cerca di dare speranza e gioia di vivere alle decine dei suoi piccoli pazienti. Il film parte con una lunga inquadratura del cielo notturno e delle sue stelle, insieme immagine di bellezza e simbolo della moltitudine di giovani vite perse, e ci presenta la condizione speciale di questi bambini così diversi dagli altri in quanto segnati dal destino di malattia che li affligge.
È la storia di un'esperienza gioiosa e dolorosa allo steaso tempo, ai, pochi invero, momenti di felicità per le guarigioni, il film ci mostra le vite dei piccoli o giovani pazienti venir portate via dalla morte. Spesso sullo schermo le battute anche scherzose con questi bambini, sono seguite da immagini di paesaggi naturali e susseguente scritta su sfondo nero in cui si legge età e causa del decesso del bambino. È un montaggio straziante che purtroppo rivediamo più volte nel corso del documentario. A queste immagini fanno da corollario e struttura portante del film, sia in sonoro che in visivo, i pensieri scritti in forma di poesia del dottore, visualizzati da pennellate di calligrafia bianca su sfondo nero a tutto schermo. Il film ci presenta così il punto di vista del medico, gli attimi di sconforto totale, la speranza e la resistenza per serbare memoria delle piccole vite scomparse. Sono pensieri che ci rimandano all'attimo ed a tutto quello che va perso, anche nel senso di possibilità inespresse, con la vita dei bambini. Ed è qui che il titolo del film si manifesta perchè "daijōbu", va tutto bene, è la parola e l'espressione di serenità e di positività che il dottor Hosoya cerca di trasmettere ai suoi pazienti ed alle loro famiglie. Nello strazio del dolore quasi infinito, cosa c'è di più terribile di vedere dei bambini e dei ragazzi deperire e sparire nel fiore degli anni? L'occhio della videocamera incornicia il passare del tempo, come si diceva quasi 10 anni di riprese, in paesaggi naturali, close up di insetti e piante, senza nessuna particolare finalità filosofica ma quasi a riportare il dolore e l'assenza di speranza in un contesto più ampio di quello propriamente umano, senza peraltro scadere in facili soluzioni spirituali. La sfida è quella, forse molto giapponese, di dare un senso all'effimero, di riuscire a gioire dei piccoli passi e delle piccole gioie quotidiane anche se, o forse proprio perchè, consapevoli della propria malattia. Il segnale che il dottore e questo bel documentario ci lancia è quello quasi impossibile di riuscire a vivere la propria vita nella malattia e nella presenza costante della morte. [Matteo Boscarol]

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